San Teodoro, che prende il nome dall’antica abbazia costruita sulla scogliera ed ora scomparsa, può essere considerato un quartiere di Genova che fa da tramite con il centro della città e le delegazioni di ponente, prima fra tutte Sampierdarena, con la quale è inglobata nella Circoscrizione Centro Ovest.
Anche anticamente poteva essere considerata una via di collegamento, peraltro di non facile percorrenza, siccome era formata da una stretta stradina delimitata, a mare, da grossi scogli e dalla collina, da cui scendevano alcuni torrentelli.
Quella che adesso è Piazza Di Negro era un campo adibito agli svaghi, come il gioco delle bocce, del pallone e di balli, come la “moresca”. Questo particolare “parco giochi” era frequentato assiduamente dalla “classe dei calzettari”, che abitavano la collina degli Angeli, dai “piloti e dai giornalieri del porto” che risiedevano, invece, nelle vicine case della Chiappella o di San Lazzaro.
In quell’epoca, stiamo parlando degli inizi del secondo millennio, si dava poco peso alle apparenze, infatti in un’area poco lontana dai giochi, alla foce di un torrente che scendeva dal poggio chiamato “Pietra del Cucco” (l’attuale Via Venezia), venivano issate le “forche” usate con solerzia per delinquenti e nemici della Repubblica.
Attualmente San Teodoro è delimitata, a ponente, dall’inizio di Via Milano, nella zona a mare, e da Via Mura degli Angeli, nella zona a monte. La parte centrale è formata, nella parte bassa da Piazza Di Negro, da Via Buozzi e da Via di Fassolo, mentre verso la collina si estende il popoloso quartiere di Oregina, con Via Venezia, Via Bologna, Via Vesuvio e tante altre vie che si arrampicano fino a raggiungere la zona di Granarolo che chiude il confine nella zona a nord.
A levante, la fine di Via Adua segna il limite della zona a mare di San Teodoro, mentre poco più a monte il confine è la Piazza del Principe.
Originariamente questa zona, denominata Fasciolo (poi Fassolo), era soltanto un’enorme scogliera che si estendeva fino a San Benigno e che mantenne pressoché invariata la sua fisionomia fino al 1630, quando fu chiusa da un solido muraglione, dove venne disposta una batteria di cannoni, a completamento della nuova cerchia di mura della città.
Verso la metà del 1800 iniziarono i lavori per la prima linea ferroviaria Torino Genova e, dopo qualche tempo, su suggerimento di Cavour, si cominciò a costruire una seconda linea per i vagoni merci, la quale provenendo da Sampierdarena percorreva parallelamente il bastione per giungere fino alla Piazza del Principe, proseguendo per Via Carlo Alberto, l’attuale Via Gramsci, per giungere allo scalo di Piazza Caricamento. L’inaugurazione della linea ferroviaria avvenne il 18 Dicembre 1853 alla presenza del Conte di Cavour e precedette di due mesi quella in forma solenne compiuta dai sovrani Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide.
Intorno al 1870 la batteria di cannoni venne demolita per lasciare spazio alla costruzione dei Magazzini Generali situati nella parte a mare. Per realizzare questa costruzione furono demolite le chiese di San Teodoro e di San Lazzaro, con il successivo trasferimento della linea ferroviaria che giungeva a Caricamento.
Successive modifiche ed ampliamenti apportati ai Magazzini nel 1876 modificarono anche via San Teodoro sulla quale venne ricavato un grande terrazzo che, coprendo una superficie di diecimila metri quadri, adorno di ringhiere in ghisa ed illuminato con fanali a gas a quattro fiammelle, divenne ben presto un luogo per le passeggiate alla moda e per le manifestazioni cittadine. Questa strada prese il nome di via Milano.
Tra il 1888 ed il 1890 si eseguirono nuovi lavori di ampliamento e il terrazzo fu ulteriormente allargato e la via assunse l’attuale denominazione nell’ultimo dopoguerra.
La chiesa di San Lazzaro sorgeva nell’omonimo fossato, pressappoco dove attualmente si trova la nuova chiesa di San Teodoro in Piazza Di Negro.
La chiesa di San Teodoro, invece, era situata nell’attuale piazza omonima ed era stata costruita sulla scogliera in epoca longobarda. La consacrazione avvenne nel 1100, anno in cui subì un radicale restauro. Le strutture originariamente modeste vennero rielaborate in forme romaniche ed ampliate a tre navate e, come quasi tutte le chiese antiche, con il coro rivolto a levante. La chiesa fu affidata ai Canonici Mortariensi che officiarono fino al XV secolo quando furono sostituiti dai Canonici Lateranensi.
Nel periodo medievale questa chiesa fu molto amata dalle famiglie nobili genovesi che contribuirono alla realizzazione delle decorazioni, in particolare dai Lomellini che nel 1303 fecero erigere all’interno dell’edificio una cappella dedicata a San Sebastiano e nel 1470 un’altra in onore alla Vergine e a San Giovanni Battista.
Nel 1481, con bolla di Papa Sisto IV, venne elevata al grado di Abbazia con molti monasteri sotto la sua giurisdizione.
L’edificio, come abbiamo già accennato, si trovava su una scogliera e, nel 1596, fu colpito duramente da una violenta mareggiata che ne pregiudicò addirittura la stabilità.
I Canonici Lateranensi rimasero fino al 1797 quando furono costretti ad abbandonarla a causa della soppressione degli ordini religiosi; l’Abbazia venne spogliata dal governo napoleonico che trasferì in Francia molte opere d’arte, tra cui il dipinto di Filippino Lippi raffigurante il “Martirio di San Sebastiano”. Questa tela fu poi restituita anni dopo alla città di Genova ed attualmente è conservata nella galleria di Palazzo Bianco.
Napoleone Bonaparte, al suo ingresso a Genova nel 1805, ricevette davanti alla porta di San Teodoro l’omaggio dell’incensazione. La leggenda dice che l’ex doge Michelangelo Cambiaso, divenuto sindaco della città, andò incontro all’imperatore, sulla Porta della Lanterna, per offrirgli le chiavi della città, ma Napoleone rifiutò gentilmente rispondendogli che erano ben affidate alla fedeltà del sindaco ed al corpo degli abitanti di Genova.
Un’altra memorabile tempesta si abbatté su Genova nel 1821, precisamente nel giorno di Natale. Fu talmente violenta che distrusse la punta del molo vecchio e cinquanta bastimenti andarono perduti o danneggiati. La chiesa di San Teodoro resse anche perché era stata provvidenzialmente restaurata nel 1817, dopo essere stata adibita a magazzino ed a caserma militare.
L’edificio, come si è detto venne poi demolito nel 1870.
Anticamente era denominato Fassolo tutto il litorale che dal fossato di San Lazzaro, il canalone che forma l’attuale via Venezia, andava a quello di San Tomaso, in fondo al quale ora si trova piazza Principe. Lo stesso nome venne dato a tutta la zona circostante, compresa la parte collinare. Per questo ancora oggi si dice di Fassolo la chiesa e la casa dei missionari di S. Vincenzo.
Negli stradari dell’800 vengono considerati di Fassolo il palazzo del Principe Doria, il palazzo Fregoso, dove venne ospitato papa Pio VII, ed il palazzo Lomellini. Il primo delimita attualmente il confine a levante del quartiere di San Teodoro, mentre il secondo sorgeva in alto, presso la chiesa di S. Michele, sul bastione sovrastante la ferrovia dove in seguito fu edificato l’Hotel Miramare; l’ultimo, con giardini al mare, era situato dove adesso si trova il monumento al duca di Galliera, all’interno dei giardini di piazza Principe.
Un atto del 1371 ricorda la loggia (luogo di ritrovo) della villa o università di Fassolo, nella quale il fuoruscito Gian Giacomo Spinola, entrato di notte armato “con grandissima imprudenza, levò le borse, le anella, e le berrette a li cittadini ch’erano ivi congregati secondo la consuetudine loro e fece prigione un fìgliolo di Bartolomeo Lomellino”.
I palazzi Fregoso e Lomellini furono distrutti quando, nel XVI secolo, fu edificata la penultima cinta muraria della città. Queste mura furono demolite tra il 1850 e il ’53 per i lavori di costruzione della Stazione ferroviaria e per quelli di sistemazione del Porto.
La via Fassolo corre quasi rettilinea, lunga e stretta, e parte da piazza Di Negro per raggiungere via S. Benedetto. A metà di questa via si trova piazza S. Teodoro, in ricordo dell’antica chiesa, della quale abbiamo parlato in precedenza.
Da questa piazzetta, passando sotto un archivolto, si sale alla chiesa e alla casa dei Missionari.
Un tempo la via Fassolo era l’unico accesso alla città per chi veniva da occidente, cioè dal passo di San Benigno o dalla discesa degli Angeli.
La chiesa viene chiamata di S. Vincenzo de Paoli, ma è dedicata alla conversione di S. Paolo.
L’architettura interna è di stile barocco leggero. Gli altari sono ricchi di marmi e tutti con balaustra. All’interno sono conservate opere d’arte, sculture e dipinti di Giuseppe Bozzano, Giacomo Boni, Tertulliano Taroni, Angelo Zaccarini, Angelo Pio, abate Micheli.
Una lapide sul pavimento indica il luogo di sepoltura di monsignor Giovanni Lercari, arcivescovo di Genova morto a ottanta anni nel 1805.
Adiacente alla chiesa si trova la casa dei preti della Missione. Il cardinale arcivescovo di Genova, Stefano Durazzo, amico di San Vincenzo, fece edificare questa casa sopra un terreno di sua proprietà. Nella casa di Fassolo da oltre tre secoli si tengono gli esercizi spirituali per il clero e per i laici.
La villa Rosazza, detta “Scoglietto” dal nome dell’altura che domina il porto, fu fatta edificare nel secolo XVI dai nobili Dinegro.
Un tempo, il giardino partiva dal litorale e saliva per arrivare fino all’ingresso. Ora non ne rimane più traccia, visto che il parco è stato trasformato nella via Bruno Buozzi e nella parte a monte è stato costruito il tratto ferroviario. La villa, recentemente restaurata, ha un terrazzo munito di balaustre marmoree che segna oggi il confine tra villa e ferrovia.
Orazio Dinegro aveva abbellito il palazzo, sia all’interno che all’esterno, ma quando il fondo passò ai Durazzo subì nuovi e importanti restauri grazie al conte Giovanni Luca nel 1787.
Il prospetto dell’edificio è opera di Andrea Tagliafichi; i quadri in risalto, i putti che sostengono le ghirlande e gli altri ornamenti si devono allo scultore genovese Nicolò Traverso. All’estremità della loggia, all’interno di due nicchie, si trovano le sculture del senatore Ansaldo Grimaldi (1471-1539) soprannominato “il grande benefattore” e del doge Giovanni Battista Cambiaso (1711-1773).
La prima delle due sculture è opera del Traverso, la seconda di Francesco Ravaschio (sec. XVIII). Le due statue furono abbattute, a furor di popolo, durante i moti del 1797 e rimasero abbandonate a lungo in piazza del Principe, ma dopo molti anni furono restaurate e rimesse in opera da Giovanni Durazzo. I saloni della villa sono decorati con stucchi dorati e pitture eseguite da Agostino Tassi di Perugia (secolo XVI); Giovanni Andrea Ansaldo raffigurò nella volta del salone di onore, in diversi pannelli, le imprese di Ambrogio Dinegro contro i corsi ribelli e gli onori tributatigli al suo ritorno in patria.
Di questa villa l’Alizeri scrisse: “A ogni passo hai viste nuove e liete, se movi dall’interno del palazzo, che sui fianchi si bea di lunghi e cupi filari di piante, o se ascendi la collina ridotta in gradi e pianerottoli, che da lungi fa campo al palazzo medesimo e gli accresce bellezza. Quivi aiuole di piante e fiori, e in mezzo ad esse or fontane or piramidi or vasche con bei zampilli, e in ogni cosa una simmetria che non lascia veder l’arte, sono a’ periti una testimonianza della feconda immaginazione di quel sommo (riferito al Tagliafichi). Più in alto i foschi e chiomati boschetti a cui sorride di si bel riso la natura, compiono lo scena… Vagheggia di fronte quanto mare s’accampa dinanzi a Genova, e di questa città superba scopre ogni torre, ogni vetta, ogni promontorio. Se non è vita ove la più schietta immagine dalla rustica semplicità può specchiarsi, dirò così, nell’azzurro d’una tranquilla marina, io non so qual fantasia di poeta valesse a tingere più bell’incanto”.
Nella villa soggiornò, dal 26 marzo al 16 novembre 1815, Carolina di Brauschweig, principessa del Galles, sposa di Augusto Federico, salito al trono di Inghilterra nell’anno 1820, col nome di Giorgio IV. La principessa Carolina andò, in quel periodo a rendere omaggio a Pio VII, ospite allora nel palazzo Reale, ed il pontefice le ricambiò la visita allo Scoglietta il 30 aprile dello stesso anno.
A villa Rosazza abitò per molti anni il marchese Lorenzo Pareto (1860-1865), che fu ministro di Carlo Alberto e dotto cultore di scienze naturali e che, proprio nella villa della Scoglietto, aveva adunato il prodotto di lunghi e pazienti studi assieme alle sue notevoli raccolte naturalistiche.
È situato a 132 metri s.l.m. tra i due avallamenti che dividono il colle di San Francesco da Paola, a levante di San Rocco e a ponente da un altro colle dietro al quale si trova via Venezia. La chiesa è dedicata al Santo Taumaturgico fondatore dei minimi, nato in Calabria, nella città di Paola, nell’anno 1437, dalla famiglia Martorilla.
Prima dell’edificazione della chiesa la località era chiamata “Caldeto” per la mitezza del clima che la caratterizzava, essendo in una posizione al riparo dal vento e spesso soleggiata.
Fino al 1478 tutta l’altura era coperta da un bosco con in mezzo alla vegetazione una vecchia casa cadente descritta in un atto notarile del 22 ottobre 1478 per le trattative di cessione fra il proprietario Martino della Chiavica e Ludovico Centurione, il quale acquisiva la proprietà come promotore di San Francesco da Paola e di due frati appartenenti al suo ordine.
San Francesco da Paola era passato da Genova, durante il viaggio per andare in Francia a curare re Luigi XII, e fu ospite del principe Doria, e vedendo quel colle profetizzò la costruzione di un santuario che si sarebbe chiamato Gesù e Maria.
Per salirvi dal basso la strada era molto ripida e angusta e corrispondeva in parte a salita Passero, ma più tardi nel secolo XIX fu aperta la attuale salita di San Francesco da Paola, che partendo da via Fassolo e passando sotto l’arco della ferrovia, costruito nel 1852, sale con alcuni tornanti fino alla Chiesa.
L’attuale chiesa non è però la primitiva dedicata ai nomi di Gesù e Maria, eretta sul finire del XV secolo, che aveva il portale sulla via pubblica. Alla sua costruzione concorsero cospicuamente con Lodovico Centurione, i Doria, un Beccaria, gli Spinola e Gio Agostino Balbi, quest’ultimo condusse l’ordine dei minimi nel Belgio.
Nel XVII secolo, Veronica Spinola, principessa di Molfetta, promosse il rifacimento della chiesa con l’ampliamento del convento secondo le forme attuali.
La chiesa subì molte razzie dopo il 1797 ed il quadro di Cesare Corte, raffigurante Ognissanti e posto nel quarto altare a sinistra, fu trasportato al Louvre durante il periodo napoleonico, ma fu restituito pochi anni dopo, così come tornò ad essere sede dell’Istituto Religioso il convento espropriato dal governo italiano, nei primi anni dell’unità d’Italia.
Nel 1930 il santuario per volontà di papa Pio XI fu elevato a dignità di basilica, mentre nel 1943 il suo successore Pio XII proclamava San Francesco da Paola patrono della gente di mare.
L’edificio è imponente, le pareti perimetrali, completamente spoglie, non fanno presagire la ricchezza di marmi policromi e di opere che decorano il disegno settecentesco dell’interno. Il tempio è a tre navate sorrette da quattordici colonne le cui volte sono decorate da affreschi di famosi pittori come erano affrescate le gallerie del Chiostro e la sala della biblioteca ad opera di Lazzaro Tavarone e di Ventura Salimbeni. Nella navata centrale spiccano le raffigurazioni del Santo che guarisce gli appestati in Fressy; in atto di accogliere nella sua regola Gregorio di Vico ed infine mentre riceve da un arcangelo le insegne dell’ordine. I medaglioni della volta furono affrescati da Giacomo Ulisse Borzino.
In corrispondenza dell’altare maggiore si notano: “L’incoronazione della Vergine”, “La disputa nel tempio” e “San Giovanni nel Deserto” affrescati da Giuseppe Isola nel 1850 ed una Madonna scolpita dal Maragliano. Presso il primo altare a destra: “San Giovanni Battista”, dipinto ad olio da suor Angela Ayroli e statua della Madonna di Tomaso Orsolino. Nel secondo altare a destra: “Comunione di San Gerolamo”, di Gian Battista Paggi; nel terzo: “Il sonno di San Giuseppe”, opera di Luca Cambiaso; nel quarto altare: “San Francesco di Sales” di Francesco Campora; nel quinto: affreschi di Giuseppe Palmieri, olio di Ottavio Semino raffigurante San Francesco da Paola e fregi in marmo di Francesco Schiaffino.
Di alto pregio presso il terzo altare a sinistra i “SS. Martino e Antonio da Padova” di Valerio Castello, oltre un dipinto su tavola raffigurante Sant’Agostino, posto sul fondo della navata ed attribuito a Ludovico Brea. La superficie del vecchio pavimento formata in gran parte di lapidi fu rinnovata con una nuova pavimentazione, mentre restano le tombe di Veronica Spinola, dell’arcivescovo Nicolò Spinola, del senatore Giuseppe Cambiaggio, dell’architetto Ippolito Cremona, del marchese G.B. Lomellini, dell’ammiraglio Luigi Serra e della marchesa Luigia Pallavicino, celebre per la famosa ode del Foscolo, qui sepolta nel 1841.
La sacrestia ha le pareti rivestite da ex voto e dipinti testimonianti il culto dei naviganti per San Francesco da Paola. Sempre in sacrestia sono degni di menzione l’artistico lavabo, il pregevole paliotto settecentesco.
Lungo il percorso della salita, fino alla chiesa, sono disposte le stazioni della via Crucis.
Carlo Barabino progettò il tempietto a pianta rotonda. Costruito nel 1824, fu aperto all’officio religioso nel 1826. Il periodo della sua costruzione, coincidente con la demolizione della chiesa di San Francesco di Castelletto, permise di impiegare le colonne dell’antica chiesa ed altri marmi provenienti dal primitivo oratorio che fu demolito per la costruzione di via Milano.
Al suo interno furono inseriti una scultura in marmo della “Madonna col Bambino”, opera del XVI secolo, donato dal principe Doria, ed un crocifisso nero del Veneziano, autore anche della statua della “Madonna del Rosario”collocata nel vano d’ingresso.
Era una delle salite più ripide della città e, prima della strutturazione del parco binari della stazione Principe, giungeva nell’omonima piazza.
La chiesa che dà il nome alla salita risale al XIV secolo ed era inizialmente intitolata a Santa Margherita. Fungeva da cappella di servizio ad un convento di Eremitane di Sant’Angostino, ma intorno al 1500 vi si trasferirono gli Apostolini che la denominarono di San Rocco, ingrandendola e decorandola grazie alle elargizioni dei nobili di quelle alture tra cui i Viale, gli Ayroli e i Monza.
Fu trasformata in varie epoche e si presenta, all’interno, riccamente decorata di stucchi e statue, opere di Marcello Sparzo. Gli affreschi della volta e del presbiterio sono di Giovanni Carlone. Tra le altre opere si ricordano: “San Giovanni decollato” di G. B. Merano; “Martirio di Santa Caterina”, di A. Semino; “Transito di Mario”, di D. Fiasella; “Transito di San Giuseppe”, di G. A. De Ferrari; “Madonna col Bambino”, tavola di anonimo del XV secolo; “San Rocco”, statua di O. Pellé; “Madonna della Guardia”, intaglio del Canepa.
Presero il nome dalla chiesa che esisteva sulla cima della salita e che, fondata nel 1467, appartenne ai Carmelitani fino al 1810. Le mura furono costruite, insieme con la Porta, tra il 1626 e il 1632 e scendevano fino alle mura di S. Benigno.
La salita degli Angeli, prima del XVII secolo, cioè prima della costruzione dell’ultima cerchia di mura, era la via principale che portava verso la Val Polcevera per poi proseguire oltre l’Appennino. La via della Lanterna, infatti, situata sulla litoranea, era solo un piccolo sentiero, scavato nella roccia del colle di S. Benigno e, di conseguenza, si percorreva con estrema difficoltà. La salita, molto lunga e ripida, inizia dalla piazza della chiesa di S. Teodoro e termina all’altezza della Porta a 114 metri sul livello del mare.
Lungo questa strada si incontrano numerose opere d’arte, purtroppo rovinate dal tempo e dall’incuria. Tra queste, alcuni bassorilievi e portali in marmo del XV secolo.
Le mura di Granarolo comprendono il settore murario che va dalla porta di Granarolo alle mura di Montemoro, verso levante. Furono costruite tra il 1626 e il 1632 nel quadro dei lavori dell’ultima grande cinta difensiva.
Queste mura davano il definitivo assetto alle difese della località che domina sulla vallata del Polcevera, già provvista di trinceramenti dal Marzo 1625, quando Genova fu minacciata dall’esercito savoiardo.
Il disegno dei trinceramenti e baluardi realizzati fu curato da Gian Giacomo Cavanna, Paolo Gerolamo Fiesco e Benedetto Viale; da una loro relazione risulta che il “giro” delle trincee eseguite a Granarolo si sviluppava su una lunghezza di 6500 palmi, con una sezione di 10 palmi. Adiacente alla porta alta delle mura fu costruita una polveriera, trasformata in caserma nel 1800. Questo edificio era detto di Santa Caterina, perché sulla sua facciata era dipinta l’immagine della santa patrizia genovese.
La porta di Granarolo, aperta nelle mura, dava accesso alla strada discendente al Garbo ed a Rivarolo oppure alla strada pianeggiante che conduce a Fregoso e a Begato. Già prima dell’ultima guerra mondiale dalla porta era stato rimosso l’interessante congegno di chiusura costituito dal ponte levatoio collegato con un gioco di catene. Dalla porta sono visibili i resti di due torri del secolo XVII posti fuori le mura a caposaldo del settore difensivo.
La salita comincia dalla Chiesa di San Rocco e conduce alla Porta di Granarolo.
Non si sa con certezza l’etimologia del toponimo Granarolo: al suono potrebbe derivare da granaio, ma documentazioni attendibili lo farebbero risultare dal nome della località Airolo, formata dal colle sopra la Chiesa di San Rocco, per cui la zona più a monte poteva essere denominata Gran Airolo.
Un tempo, in questa salita si trovava un Monastero di Agostiniane dette di Sant’Ignazio: questo edificio fu trasformato in caserma sul finire del 1800.
Granarolo fu per molti anni un luogo ideale per trascorrervi periodi di villeggiatura ed i nobili “per la estate si contendevano di uscire dalle antiche mura cittadine” scegliendo d’andare in villa in Albaro o sulle alture della città come, appunto, Granarolo.
Testimonianza di queste villeggiature sono alcune ville presenti nella zona, fra le quali Villa Lomellini, che porta il nome degli antichi padroni che la fecero costruire nel secolo XVI.
Anche Villa Cambiaso occupa una delle posizioni più panoramiche di questa località, essendo situata nella parte più a monte della salita. L’edificio, voluto dalla famiglia Colonna nel secolo XVI, passò successivamente ai Cambiaso.
Il palazzo ha un suo lato nella salita con due sontuosi portali che formano l’accesso, disposti sul muro di cinta. Malgrado la completa rovina, i portali, e particolarmente l’inferiore, conferiscono maestosità alla villa nel suo, purtroppo, irrimediabile abbandono.
Al centro di Granarolo, nel punto di confluenza della antica strada che conduceva a Begato con quella discendente verso la città, si trova la Chiesa di Santa Maria di Granarolo, che un tempo si raggiungeva solamente a piedi prima che lì arrivasse la funicolare.
La chiesa è antica di nove secoli, risalendo al 1192, e la sua origine è dovuta ad un religioso di nome Benizzo. Dopo la sua fondazione, per opera dei canonici regolari mortarensi, passò ad essere commenda, subordinata alla metropolitana di San Lorenzo, per essere, infine, eretta in parrocchia nel 1200. Restò tale fino al 1821, anno in cui le funzioni e le attività parrocchiali cominciarono a svolgersi nella sottostante chiesa di San Rocco. In quel periodo a Granarolo si stabilirono gli agostiniani Scalzi, poi i Crociferi ed infine i Passionisti.
Nel 1848, durante i moti patriottici, con le manifestazioni contro i Gesuiti, gruppi di dimostranti si portarono nei pressi della chiesa, inscenando una manifestazione contro i Passionisti, accusati di essere dalla parte dei Gesuiti.
La chiesa di Santa Maria di Granarolo fu ampliata e restaurata in diversi periodi; va ricordato il rifacimento della facciata ornata da un grande affresco, opera del pittore Achille De Lorenzi.
All’interno si trovano opere di Giacomo Maria Bolognese, Domenico Parodi (che vi dipinse la “Madonna di Belvedere”), Pantaleo Calvi (autore della “Madonna del Rosario”) e di altri ignoti, oltre a quattro pregevoli sculture di Antonio Canepa e Onorato Toso. Di particolare rilievo il dipinto ad olio di Pantaleo Calvi, raffigurante la “Madonna del Rosario” del 1622, ricordato come quadro di importanza artistica per gli studiosi d’arte genovese.
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